Cosmetici e web: informazione o disinformazione?

Esistono diverse tipologie di consumatori di cosmetici: quelli più esigenti non si accontentano di leggere le informazioni contenute nel packaging e non si fidano del consiglio della propria estetista, ma vogliono conoscere e comprendere nel dettaglio ciò che acquistano e che applicano quotidianamente sulla cute. Con la Direttiva CEE 76/768/CEE, è divenuta obbligatoria, da parte dei paesi dell’Unione Europea, l’indicazione di tutti i componenti contenuti nel prodotto finito: l’etichetta è diventata così lo strumento prioritario per informarci.

Ma ahimè, per il consumatore medio spesso le diciture dell’etichetta risultano vaghe, complesse, incomprensibili: mancano alla maggior parte di noi gli strumenti utili per decifrare quel linguaggio criptico, con molta frustrazione di quanti vorrebbero acquistare in modo più consapevole.

C’è da dire, infatti, che le leggi che regolano la commercializzazione dei cosmetici non sono sufficientemente esaustive e al passo con i tempi. Per fare un esempio, un argomento importante come la sostenibilità (economica, ambientale e sociale) non è regolamentato e non troviamo norme in tema di biodegradabilità, biocompatibilità e impatto ambientale. Tutti sanno che il cosmetico è fonte di inquinamento nelle varie fasi della filiera, dalla produzione allo smaltimento e, anche se  l’orientamento dell’industria è sempre più indirizzato al “verde”, siamo ancora lontani dall’ottimizzazione dei processi.

Cosa fare dunque per soddisfare la propria necessità di informazioni? Nulla di più immediato che scandagliare l’oceano del web, dove è possibile reperire notizie e spiegazioni riguardo qualsiasi argomento, ma dove l’insidia di imbattersi in tutto e il contrario di tutto è sempre in agguato.

Il risultato di una informazione così diffusa e non verificata è infatti spesso una maggiore confusione, che equivale a disinformazione. Abbiamo assistito, nell’ultimo decennio, all’esplosione di forum dove è possibile confrontarsi e scambiarsi consigli, esperienze e opinioni: tramite i blog on-line si analizzano i prodotti, si indicano gli ingredienti “buoni” o “cattivi”, si trova conforto e indirizzo sulle proprie scelte negli acquisti. Il successo di questi siti è dovuto al fatto che, a ragion veduta, molti consumatori ripongono maggior fiducia nei confronti di fonti indipendenti e sopra le parti, per quanto non sempre autorevoli, rispetto a messaggi pubblicitari iperbolici e spesso ingannevoli.

Una delle iniziative più discusse è il Biodizionario che, dal 2000, si propone come nuovo punto di riferimento per consumatori che ambiscono a maggior consapevolezza, per formulatori cosmetologi alle prime armi e per aziende che si avvicinano al naturale e al sostenibile. Ma come funziona, e quali sono i limiti del Biodizionario? La sua consultazione è assai semplice (o semplicistica, per i detrattori), basta inserire il nome della sostanza nell’apposita casella e attendere la  comparsa di un giudizio assegnato da semafori su modello di quello utilizzato per i programmi televisivi: rosso se non va bene, doppio rosso se non è accettabile, giallo se ci sono dei dubbi e verde se va bene.

Il Biodizionario è allineato con le valutazioni e le restrizioni imposte dai vari enti di certificazione operanti nella cosmesi naturale, i cui criteri si basano su dati tossicologici e ricerche scientifiche.Tuttavia non consente di comprendere fino in fondo la valutazione: il suo limite è che l’ingrediente viene lapidariamente bollato, senza che venga fornita alcuna spiegazione esaustiva. È pur vero che nell’era dello sviluppo sostenibile e della “mitizzazione” di tutto ciò che è naturale, i criteri di valutazione sono risaputi e riguardano essenzialmente la biodegradabilità, la dermocompatibilità e la naturalità della sostanza; tuttavia, soprattutto per i non addetti ai lavori, sarà difficile comprendere quali sarebbero le conseguenze dell’utilizzo di una sostanza “bollata”. Molto spesso, inoltre, la “pericolosità” è del tutto soggettiva: se ad esempio fossi  allergico all’alcol benzilico, componente del profumo, ne basterebbe davvero poco per scatenare la reazione avversa.

Il lavoro di approfondimento del Biodizionario sarebbe immane ma fornirebbe strumenti realmente utili per comprendere quali sono i limiti o le potenzialità degli ingredienti, consentendo al fruitore la capacità e la soddisfazione di elaborare criticamente un giudizio e poter scegliere la soluzione migliore per le proprie esigenze.

Altro punto debole è l’espressione del punto di vista di una sola persona. Sarebbe davvero uno strumento influente se potesse far confluire elementi di confronto e approfondimento elaborati da esperti nei diversi settori, dalla chimica alla dermatologia, che potrebbero concorrere a fornire conoscenze esaustive riguardo la complessità del prodotto cosmetico. In fin dei conti, il vero giudizio sulla sicurezza di un prodotto deve venire dalle autorità regolatorie, indipendentemente dalla natura degli ingredienti. Una efficiente rete a sostegno della cosmetovigilanza, filtrata da professionisti della salute come Medici, Farmacisti ed Erboristi, sarebbe ben più autorevole ed utile di blog, siti di informazione, Wiki, dizionari, ed altro.

In conclusione, pur riconoscendone i limiti, il Biodizionario resta comunque un buon punto di partenza per una cultura cosmetica consapevole, ma la strada da percorrere è ancora lunga.